Uno studio presentato al congresso europeo per la cura e la ricerca sulla sclerosi multipla (ECTRIMS 2024) ha mostrato che, prolungando l’assunzione di vitamina D a dosi leggermente superiori rispetto ai precedenti studi, è possibile osservare una riduzione dell’attività della malattia. I ricercatori hanno definito queste dosi come “alte” (100.000 UI ogni 15 giorni), ma in realtà si tratta di dosi fisiologiche. I medici che seguono il Protocollo Coimbra, che utilizzano effettivamente alte dosi di vitamina D, riscontrano quotidianamente risultati significativi che i ricercatori dello studio iniziano appena a intravedere.
La nota positiva è che il pubblico presente al congresso ha accolto con entusiasmo i risultati della ricerca. È plausibile che in un prossimo futuro si possa compiere un ulteriore passo in avanti nella somministrazione di dosi più efficaci di vitamina D.
Nel frattempo, per chi desidera intervenire in modo più incisivo sul decorso della malattia, è possibile rivolgersi ai medici esperti del Protocollo Coimbra.
La vitamina D è un ormone che può essere prodotto per via endogena quando si espone la pelle alla luce solare, o introdotto attraverso il consumo di alimenti che lo contengono naturalmente – o sono fortificati – o grazie all’assunzione di integratori. La vitamina D svolge un ruolo cruciale nella regolazione dei livelli di calcio e fosforo nel corpo, che è essenziale per mantenere la salute scheletrica. Gli studi che approfondiscono il suo metabolismo, gli effetti della carenza e la necessità di integrazione sono ormai numerosi ma alcune questioni rimangono aperte e ampiamente discusse.
Alcuni punti fermi:
Si conoscono della vitamina D il suo metabolismo, i metaboliti non canonici, i meccanismi d’azione e i polimorfismi genetici, tutti elementi che hanno contribuito a definire il suo ruolo nella nutrizione e nelle malattie. In carenza si riduce l’assorbimento intestinale del calcio portando a iperparatiroidismo secondario, perdita ossea e aumento del rischio di fratture negli anziani. Le meta-analisi degli studi clinici mostrano che la vitamina D e il calcio, insieme, riducono le fratture dell’anca e altre fratture nei residenti delle case di cura.
È chiaro dallo studio dei meccanismi d’azione che la quantità di vitamina D dipende anche da condizioni diverse da quelle note (UV e alimentazione) e che possono essere rilevate con metaboliti non canonici della vitamina D.
La somministrazione orale di colecalciferolo (D3) è la preferita. Il calcifediolo, calcitriolo e alfacalcidolo dovrebbero essere fonti limitate a casi specifici, così come la somministrazione parenterale.
Oggi si sta approfondendo anche la ricerca clinica sugli effetti extrascheletrici della vitamina D per i potenziali benefici che si sono visti, nel ridurre l’incidenza di cancro, malattie autoimmuni, eventi cardiovascolari e diabete.
La concentrazione serica di 25idrossivitamina D rimane il biomarker accettato ma i livelli ottimali di 25-idrossivitamina D rimangono ancora oggetto di dibattito. Le raccomandazioni derivanti dalle società internazionali e dalle linee guida possono differire sia per i diversi approcci utilizzati, sia per le prospettive cliniche (livello di cutoff al quale nessun individuo ha un esito indesiderato) o le prospettive di salute pubblica (livello di cutoff al quale il 97,5% degli individui non ha un esito indesiderato).
Il confronto fra esperti continua ad essere necessario, conclude il documento, per permettere alla comunità scientifica di valutare e condurre ulteriori studi con metodologie più rigorose, per esplorare meglio qualsiasi contesto clinico potenzialmente influenzato dalla vitamina D e per fornire dati affidabili necessari ad aggiornare le raccomandazioni internazionali.